È un venerdì mattina di un giorno qualunque di un anno NON qualunque, ma estremo, pesante, che diventa speciale nel momento in cui, proprio una qualunque mattina, “Boosta” decide di raccontarci del suo nuovo lavoro.
Per noi, che viviamo di emozioni in note e che ce le siamo viste togliere, è come prendere un piccolo respiro dopo una lunga apnea. La modalità è strana, come i tempi: strana perché mi rendo conto che l’online è qualcosa a cui ci siamo fin troppo abituati soprattutto in questo 2020 ricco di privazioni, tanto che non mi ricordo nemmeno bene come sia, assistere ad una conferenza “normale”.
Davide ci presenta il suo lavoro come un genitore parlerebbe dei suoi figli ed è bello osservarlo mentre ce ne evidenzia pregi e possibili difetti e ci spiega che questo è un lavoro nato dall’esigenza di raccontare non un periodo storico, ma del suo essere un musicista per passione, con una predilezione per il suono e le colonne sonore, in particolare per «tutto ciò che è suono e racconta un’emozione».
Facile è un disco di cui essere fieri, un disco sincero, perché «più onesti siamo, più è possibile trasmettere verità». Avrebbe potuto procrastinarne l’uscita, ma non ha voluto: perché il momento era questo, giusto o sbagliato che fosse in termini di strategia.
Ascolto con voracità le domande e le impressioni dei giornalisti presenti alla conferenza, spesso non ho il coraggio di parlare, non mi sento abbastanza “in diritto di”, ma di sicuro molte delle risposte di Davide appagano anche la mia, di sete. Racconta di una precisa scelta emotiva di cestinare pezzi più melodici, più simili a “canzoni”, per lasciare che fosse il suono a parlare, a narrare la mancanza di certezze di questo periodo, in cui la sensazione è «quella di una lastra sottile che si potrebbe spezzare da un momento all’altro». I titoli dei brani riprendono i titoli del libro, come farebbe un pittore che, sotto al suo quadro, mette la sua firma, ma la sua è una sorta di firma aperta, perché quando poi la musica viaggia, diventa di altri.
Di “facile”, Boosta dice che c’è «il suono del suo silenzio» perché per creare, a volte, si ha bisogno di ascoltare soprattutto se stessi. L’esigenza di produrre un disco personale come questo arriva da una mostra scoperta per caso mentre ne visitava un’altra; in un angolo vi erano fotografie che documentavano delle mani su di un pianoforte che, suonandolo, sembrava discutessero o si accarezzassero, e infine una frase a corollario della mostra: «la musica è facile».
Ma soprattutto, la musica è un viaggio che parte dal lontano, esige spazio ma non è certamente solo fisico: dipende anche dalla curiosità di ciascuno di andare a fondo di ciò che si ascolta in un momento storico in cui, rispetto alla grammatica musicale del ‘900, sembra che tutto stia perdendo di complessità.
Sarebbe bello darsi una possibilità, non perdere la fiducia che qualcosa di vero ci colpisca, ci attraversi, sarebbe bello non dare nulla per scontato; ma soprattutto, sarebbe bello se tutto avesse un suono. Sarebbe più Facile.
#nonchiamatelafissa di Chiara Francese