L’estate sarebbe dovuta finire il 23 settembre eppure ha scelto di non lasciarci andare per concederci un’occasione unica, irripetibile, formidabile. È l’8 ottobre 2023 eppure sembra ancora estate. Diodato all’alba? Ve lo racconto così…
“Che soffia il vento
Sulle tue labbra
Sugli occhi…”
Svegliarsi alle 04.00 del mattino, con pochissime ore di sonno, mentre fuori c’è un mondo che pare rassicurarsi sotto le lenzuola. Le strade sono svuotate, ti sembrano quasi nuove nella loro ombreggiatura. C’è solo quel gatto di quartiere che stupito si accorge di una luce al quarto piano di un appartamento, il mio. Aprire la finestra e scrutare il cielo ombreggiato tra il blu notte e il grigio antracite, sentire il caffè inondare gli spazi della casa mentre tutti dormono e non vuoi turbare il loro idillio. Scivolare a passo felpato nel corridoio cercando di riconoscere nel buio dell’armadio i contorni di ciò che dovrai indossare. Guardarsi allo specchio mentre nella testa ti ronza “Vieni a ridere di me” e restare in quell’istante tra incoscienza e incredulità.
È ottobre, fa ancora caldo e devi andare a Taranto al Molo San Cataldo e a malapena conosci la strada da percorrere ma non ti importa, sai che devi andare. Scendere le scale con il cuore a mille, montare in auto e osservare quel silenzio surreale prometterti qualcosa di speciale. Ci sono diciassette gradi, Martina Franca è più spopolata che mai e raggiungi la periferia per raccattare il resto della ciurma, pronta a vivere con te l’ennesima prelibatezza. Avere la radio accesa ma non riuscire a farsi attraversare da altre voci perché è il cuore e la testa che ti remano contro raccontandoti di quella che sarà, per sempre, la voce che ti solleverà dai dettami del mondo, dai suoi imperativi, da ciò che distrugge e ti farà sentire appagata, completa. Le mani si stringono, un sorriso ingenuo si specchia negli occhi limpidi e assonnati. Qualcosa di forte che ti rincuora e ti fa spingere l’acceleratore. Lasciarsi alle spalle Martina e imbattersi nel buio che fa meno paura, stavolta. Così le curve oscure del bosco dell’Orimini scendono sinuose e morbide sotto i pneumatici e lo sguardo si riempie di luce. No. Non è l’alba. Non ancora. Noi come molte altre persone l’attenderemo in compagnia di quella voce. Una voce che ci ha strappato di dosso le lenzuola, i vestiti e ci ha messo in cammino verso di lei.
E così vai. Taranto diventa sempre più vicina e la tua mente inizia a ricordarti il perché sei tornata in quella terra, quella che avevi abbandonato qualche anno prima. D’un tratto riconosci lo stridore del treno che ti riportava verso casa. Il “Roxy bar” dei Tamburi, il cavalca ferrovia dal quale cerchi di scorgere le somiglianze del passato che, come sempre, bussa alla porta del cuore. Taranto così disillusa, così vogliosa di linfa vitale è ancora dormiente ma si racconta al suo mare. La vedi brillare nonostante le sue ferite e lo sguardo si gonfia di lacrime perché qualcuno non ce l’ha fatta e forse avresti dovuto scegliere di raccontare, con parole pure, quei ricordi frantumati da qualcosa di temibile. Sembra quasi darti del “tu”, accoglierti in quell’abbraccio che ti accompagna al molo San Cataldo. Incredibile. Quei luoghi raccontati da tuo padre, quelli che ha fatto suoi negli anni di lavoro, adesso sono i passi con i quali stai calcando uno scenario inconsueto ma che strilla beltà.
“Gridano i gabbiani
Sul cuore di questa città”
Una fiumana di gente tra sorrisi, ritornelli e chiacchiericci si riconosce nei contorni di un cielo che attende di colorarsi di luce. C’è un gruppo di ragazze che ha dovuto fare una levataccia più tosta della tua, sono di Foggia e sorridono accumunate da un fuoco comune. A qualche passo c’è quella che, da qualche tempo, è diventata una tua costante malgrado la timidezza: il fan club di Diodato; uniti nel sorriso e nei chilometri macinati. Si raccontano storie intrise di emozioni assordanti; c’è una coppia che fedele si stringe la mano e qualche passo oltre s’intravede la sagoma di perduti amanti che avrebbero voglia di prendersi nuovamente la scena. C’è una giovane madre con una piccina in braccio. È assonnata ma cerca di scorgere tra la folla quel tipo che dovrebbe cantare.
C’è tanto affetto, quasi spropositato. Sfacciato. Qualche coretto chiama a gran voce: “Diodato” mentre un uomo che, onestamente, sembra un albero maestro, invade la visuale su quel palchetto incastonato su un’imbarcazione mercantile. Una gru gialla sulla sinistra. Il mare popolato da qualche imbarcazione che, impietrita, aspetta di obbedire a quella magia. È l’ora.
“Quando sei parte della storia
Fino a riuscire ad averne memoria…”
E sei, anzi siamo, nuovamente lì. Dove il tempo non conosce unità di misura, dove il cuore pulsa più forte e le labbra hanno sete di vita, di fascino. Le mani che si stringono, le labbra che si accomodano in un tenero bacio. Un applauso accoglie un sorriso gentile pronto a raccontarsi con un’autenticità disarmante. Il cielo inizia a schiarirsi sulle note di “Adesso”; quanto tempo è passato dalla prima volta che l’hai ascoltata live? Quanti da quel Sanremo? Diversa, sempre toccante e vicina a quello di cui necessiti. C’è tenerezza, speranza ma anche voglia di buttarti addosso le colpe delle tue azioni, della tua codardia. E mentre quella voce pazzesca ti sfiora l’anima, sei lì che viaggi insieme ad una ciurma di gente che come te è lì e sta scrivendo un pezzetto di storia in cui ognuno sceglie le proprie note, le proprie corde, le parole da addomesticare. E improvvisamente è chiaro: Antonio Diodato c’è riuscito ancora. Ha portato te e tutte quelle persone nel suo immenso “altrove” e stavolta – malgrado canti “Fino a farci scomparire”- senti che è quello il posto e il modo giusto da abitare. Ognuno si appropria di un ritornello, di una nota, di uno sguardo fuggevole ma che sembra cucito proprio su di te. Indossi gli occhiali da sole ma ti rendi trasparente perché il potere della sua musica è questo: ti attraversa, senza chiederti alcun permesso è lì pronta ad insegnarti che le cose migliori accadono quando inizi a sceglierti, a farti del bene, a concederti veramente alla felicità.
La musica di Diodato è questo: vita preziosa che scorre tra le sue vene e che diventano posti empatici bellissimi.
Restare incastrati in una poesia distillata in musica, avere voglia di appartenersi. Il violino di Rodrigo D’Erasmo accompagna il levare del sole. Lo sguardo di Antonio sembra diventare quello di tutti: è l’alba. Quasi non la riconosci, il sole lento si prende il suo spazio mentre un applauso colora la voce di Diodato che ci ha appena donato una di quelle emozioni che non può essere spiegata con le parole. Vi è mai capitato di affogare nella bellezza? Ebbene è quello che è accaduto ad ognuno di noi. È stato il sole, nel suo lento e calibrato, moto a darmi questa consapevolezza. L’alba si è mostrata con una potenza disarmante, una variazione delle luci, quasi drammaturgicamente studiate che ne hanno evidenziato un mutamento importante nell’atmosfera di ogni spettatore. La scelta dei brani? Impeccabile: dai successi dell’ultimo anno, sino alle canzoni che sono diventate un evergreen per i suoi numerosissimi seguaci. É iconico, si direbbe. Il pubblico che ha creato Diodato attorno a sé consegna un’aria così autentica da sembrare una grandissima famiglia. Una di quelle imperfette ma consapevole di vivere i propri sentimenti, sia pur in maniera eccessiva, ma autentica.
“Come vedi quei due pazzi
Che si sono tolti tutto?”
L’estate è finita all’alba con la voce di Antonio. Quella voce che ti ha stregato come solo le bellezze autentiche sanno fare ti ha restituito al mondo in maniera differente, purificata. E quel “miracolo” che canta lo vivi anche tu, ne sei parte.
“E non ne voglio fare a meno oramai
Di quel bellissimo rumore che fai…”
Ascoltare Diodato live è un’esperienza da concedersi, lo dico sempre, farlo in acustico è un privilegio. La sonorità della sua voce così potente da penetrare in ogni parte di te diventa il fil rouge del giorno che è appena nato ma he è destinato a non tramontare mai e a essere tuo per sempre. Quell’alba che abbiamo atteso con lui, in fondo, non è mai tramontata. Resta lì. Immutabile.
Pronta a fare rumore. A farlo ancora. Tutti insieme. Pronta ad esplodere con la sua lucentezza laddove risuonerà, ancora una volta, la sua voce.
Raccontami un concerto di Rosa Elenia Stravato
Foto copertina di Maria Zigrino