“Non sapevo fosse il tuo cantante preferito”, mi dice Milly mentre io scalpito stretta nella mia sediolina da parterre in attesa del concerto.
Avete presente quando bastano le prime note di una canzone per sentire il cuore che scoppia? Ecco, immaginate un live tutto così. Quasi due ore filate in paradiso. Le canto tutte, ma sottovoce. Non voglio perdermi nulla, nessuna inflessione della voce, nessun dettaglio. Per due ore il resto del mondo non esiste. C’è solo quel palco, quella voce, quelle canzoni. Torno in me giusto in tempo per videochiamare i miei su “Father and son”. Quella stessa “Father and son” che mi fece ascoltare mio padre in macchina una quindicina di anni fa. La stessa che ascoltammo insieme dal vivo quasi dieci anni fa.
Non so quando è diventato il mio preferito. Dopo il colpo di fulmine con “Father and son”, qualcosa deve essere cresciuto in me, lentamente. Ho scoperto “Wild World”, che anni dopo avrei dedicato a uno svizzero tutto sorriso conosciuto in Brasile, poi “The first cut is the deepest”, ascoltata pensando al primo amore adolescenziale. Con “Matthew & Son” ci ho preparato la maturità, “If you want to sing out, sing out” è la mia inesauribile fonte di positività. Ogni canzone è incastonata tra i miei ricordi più preziosi.
“Non sapevo fosse il tuo cantante preferito”, dice un ragazzo dietro di me al signore che gli è accanto, a fine concerto. Io mi volto, sorrido, siamo già amici.
Il ragazzo ha portato lo zio a quel concerto senza sapere cosa significasse Cat Stevens per lui. “È stato la colonna sonora del mio matrimonio”, confessa. Quarantotto anni di felice matrimonio con la sua Mariella, racconta con occhi lucidi. La Mariella che oggi non c’è più e che se ci fosse sarebbe di certo accanto a lui, amante della musica ed entusiasta della vita com’era. Io e Milly pendiamo dalle sue labbra mentre ci racconta di Cuba, del Brasile, delle centinaia di vinili che oggi non ascolta più. Per i troppi ricordi, immagino. Perché essere felice senza di lei non è lo stesso.
“Un grande, purtroppo sottovalutato”, decretiamo mentre rivolgiamo l’ultimo sguardo al palco ormai vuoto. Parliamo di musica, ha gli stessi gusti di mio padre, me lo ricorda un po’. Trattengo le lacrime a stento – non le trattengo affatto – mentre ci racconta del suo grande amore, dell’altra metà della mela che esiste e che non vede l’ora di raggiungere. Io non so cosa dire. Quali parole di conforto posso rivolgere a questo gentile sconosciuto, a quest’anima bella che oggi soffre ma che sa di avere avuto una fortuna immensa?
È stato fortunato, glielo dico sottovoce.
Lui mi guarda e sorride.
È stato fortunato, lo sa.
Lascio l’Auditorium stordita e commossa, non so più se per Cat Stevens o per la storia d’amore. Io e Milly siamo un fiume di lacrime e parole: che roba potente la musica, ci diciamo. Riesce a farti uscire di casa anche quando nulla sembra avere senso. Riesce a creare legami inaspettati e unire generazioni. Lo zio al nipote, noi a loro. Il padre al figlio, qualche fila più avanti, con il primo che abbraccia entusiasta il secondo tra un brano e l’altro. Come le centinaia di altri “father and son” che negli anni si saranno emozionati e abbracciati allo stesso modo. Come me e mio padre.
Mi ritrovo a pensare alla vita, alla morte, all’amore. A un’infinità di cose che non ho ancora capito e che mi sembrano straordinariamente complesse, intricate, incerte. Eppure, mentre attraverso Roma in questa calda sera di metà giugno, con addosso i miei magoni e le mie insicurezze, mi sento fortunata. Piena di vita, piena di possibilità.
“If you want to sing out, sing out” riecheggia nella mia testa.
Sono fortunata, lo so.
di Federica Sessa